Ad inizio settimana scorsa parlavamo di come sui mercati finanziari stiano agendo, in un ruolo che se volessimo potremmo definire da agenti provocatori, diversi protagonisti. Ne avevamo individuati tre: la volatilità dei mercati azionari, l’andamento del petrolio e la situazione dei titoli di stato degli USA.
Dopo aver provato a raccontare la situazione per quel che riguarda l’andamento dei prezzi del greggio, proviamo oggi a vedere qualche aspetto di quanto sta accadendo ai titoli di stato degli Stati Uniti e non solo.
Per chi si occupa di finanza, una delle poche certezze sopravvissute al turbolento volgersi degli eventi di questo inizio secolo è sempre stata la definizione di investimento sicuro dei titoli di stato statunitensi. Per gli investitori internazionali i Treasury hanno rappresentato l’ancora di salvataggio nel periodo buio della grande crisi finanziari, nelle settimane che seguirono lo shock collettivo dell’11 settembre e perfino, perfino, quando le agenzie di rating hanno inziato a porsi qualche dubbio sull’andamento dei conti a Washington. Ora, però, qualcosa sembra essersi rotto e da investimento “free risk” i Treasury si comportano, per dirla con le parole di Lawrence Summers, come le emissioni delle economie emergenti e la volatilità si è impossessata anche di questo tranquillo angolo di mercato e dei sui 29 trilioni di dollari di valore.
I dazi voluti dall’amministrazione Trump sono stati molto probabilmente solo il detonatore di una situazione esplosiva che covava nei mercati da molto tempo. La preoccupazione per un nuovo sussulto dell’inflazione vale sicuramente qualche decimale di rendimento in più, ma la preoccupazione più profonda sta nella sostenibilità del debito pubblico statunitense. Stando agli ultimi dati dell’FMI il rapporto debito/PIL per gli USA passerà dal 121% attuale al 131,7% nel 2029. La riduzione del deficit è la via maestra per rallentare questa traiettoria, ma sull’argomento le opinioni degli investitori divergono. C’è chi pensa che l’idea trumpiana di taglio della spesa e contemporaneo taglio delle tasse bilanciato dagli introiti derivanti dai dazi non faccia i conti con la capacità dell’economia a stelle e strisce di sopportare un’inflazione più alta e che l’effetto complessivo possa essere soltanto un’ulteriore incremento del deficit.
In questo clima di incertezza gli investitori internazionali si sentono meno inclini a finanziare il debito statunitense e la domanda di Treasury si indebolisce. Gli investitori domestici, per non saper né leggere né scrivere, passano al “dash for cash”, vendendo treasury e rimanendo in liquidità.
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