Negli ultimi tre-quattro anni il settore tecnologico statunitense ha guidato gran parte del rally azionario globale. L’ondata di investimenti e adozione di strumenti di intelligenza artificiale (AI) ha spinto i titoli mega-cap a crescere molto più velocemente della media del mercato, trasformando quelle poche società in veri e propri «motori» degli indici. Tra il 2023 e il 2024, ad esempio, il gruppo di big tech USA noto come “Magnifiche 7” ha registrato una performance cumulata impressionante e — in termini di capitalizzazione — questi pochi nomi sono arrivati a pesare oltre un terzo dell’S&P 500. Questo livello di concentrazione (intorno al 33–34% dell’S&P 500 nella prima metà del 2025) è diventato un tema dominante nelle analisi sul rischio di mercato.
A livello di capitalizzazioni, i record degli ultimi mesi sono emblematici. Microsoft ha raggiunto valutazioni nell’ordine dei trilioni: dati aggiornati di settembre 2025 la collocano intorno a circa 3,7–3,8 trilioni di dollari di market cap. Oracle, che negli ultimi trimestri ha visto un’impennata grazie a forti prospettive nel cloud e contratti legati all’AI, ha invece una capitalizzazione nell’intorno degli 800–870 miliardi di dollari, livelli che hanno fatto diventare – anche solo per qualche giorno – il suo fondatore, Larry Ellison, l’uomo più ricco al mondo nella classifica stilata da Bloomberg.
Questa elevata concentrazione di capitali in pochi titoli è uno dei principali rischi evidenziati dagli analisti negli ultimi tempi. Se l’andamento di un indice è deciso da pochissime azioni, diventa più probabile che un ripiegamento concentrato in quelle poche posizioni trascini al ribasso l’intero mercato, anche se la maggior parte delle società sottostanti resta sana. Diverse banche e commentatori di mercato hanno paragonato alcuni indicatori di valutazione attuali a livelli che ricordano il periodo della bolla dot-com, oppure hanno lanciato avvisi di attenzione sul fatto che le valutazioni riflettono attese di crescita molto elevate e concentrate su poche aziende. Il secondo punto è probabilmente quello a cui si dovrebbe prestare più attenzione.
Molte voci autorevoli concordano nell’evidenziare due punti: la forte dipendenza della performance degli indici da poche mega-cap (con conseguente rischio di “concentrazione”); il fatto che molte valutazioni incorporano aspettative di crescita molto alte nel medio periodo, soprattutto legate all’adozione generalizzata dell’AI — aspettative che potrebbero rivelarsi troppo ottimistiche. Fonti come Bloomberg, Barron’s e report di istituzioni finanziarie hanno a più riprese messo in guardia circa la possibilità che giudizi troppo uniformi e un eccesso di fiducia sull’AI portino a rapide correzioni se i ritorni economici risultassero inferiori alle attese.
L’analisi quantitativa può venirci in aiuto, traducendo in numeri quelle che spesso sono soltanto sensazioni e che rischiano di trasformare in fantomatiche “bolle” anche processi più complessi e strutturali. Ad aiutarci in questo è uno studio condotto da Banca d’Italia e firmato da Marco Albori, Valerio Nispi Landi e Marco Taboga. Il lavoro, pubblicato da CEPR, si intitola “Unpacking US tech valuations: An agnostic assessment” e analizza i numeri che sostengono le valutazione delle 10 principali big tech USA.
Gli autori hanno usato un modello che serve a capire quanta crescita futura degli utili il mercato “sta già scontando” nei prezzi attuali delle azioni. In pratica, partendo dal rapporto prezzo/utili (il famoso P/E), hanno tradotto quei numeri in tassi di crescita impliciti: cioè, quale aumento degli utili le aziende dovrebbero registrare nei prossimi anni perché i prezzi di oggi abbiano senso. Poi hanno confrontato questi tassi con due cose: la crescita effettiva osservata in passato e le previsioni degli analisti.
Il risultato di questa analisi ci dice che per le sei società più grandi del campione il tasso di crescita annuo implicito medio richiesto dal mercato è dell’ordine del 12% (contro una crescita reale osservata negli ultimi cinque anni molto superiore, ~33% in media), mentre per le quattro società più piccole il tasso implicito è molto più elevato (intorno al 41%). Una percentuale tutto sommato coerente – sostengono gli autori – con le loro recenti forti crescite e con il fatto che stanno entrando in nuovi mercati legati all’AI.
Gli economisti di Bankitalia concludono sostenendo che, benché elevate, le attese di mercato sulle big tech USA non sono del tutto implausibili se l’adozione dell’AI continuerà a generare domanda sostenuta di cloud, hardware e servizi. Ancora una volta il punto è chiaro: la sostenibilità dipende da quanto veloce e profonda sarà l’adozione dell’AI, dalla concorrenza internazionale e dalla realizzazione dei guadagni di efficienza attesi. Tante variabili che confermano l’esistenza del rischio di concentrazione se alcune di queste aspettative non si dovessero concretizzare.
Riassumento, il rally tech degli ultimi anni è sostenuto da driver reali (AI, cloud, advertising digitale, maggiore uso di dispositivi), ma la concentrazione delle valutazioni in poche società e le aspettative di crescita incorporate nei prezzi restano nodi critici. L’analisi quantitativa – come quella svolta nello studio descritto sopra – attenua, ma non elimina, i timori: le valutazioni possono essere sostenute da scenari di forte crescita — ma la loro realizzazione è tutt’altro che certa.
Tutto questo significa una sola cosa, prudenza. E in finanza la prudenza si traduce in diversificazione, attenzione alle metriche fondamentali e consapevolezza del rischio che ci si assume concentrandosi su poche mega-cap.
Image by Ahmad Ardity