Nel marzo del 2023 la Silicon Valley Bank crollò in pochi giorni, travolta da una corsa agli sportelli e da un buco di liquidità che mise a nudo la fragilità di un intero modello bancario. Quel fallimento fu uno shock: mostrò come anche istituti solidi sulla carta potessero precipitare se troppo esposti a asset illiquidi e a clienti altamente concentrati.
Due anni dopo, quella lezione sembra però già lontana. Oggi, mentre l’attenzione generale è assorbita da intelligenza artificiale, megadeal miliardari e data center da record, un altro fronte della finanza americana comincia a lanciare segnali inquietanti: quello della salute del credito.
Il primo campanello d’allarme è arrivato da First Brands, gruppo industriale statunitense produttore di componenti per auto, che a ottobre ha dichiarato bancarotta lasciando dietro di sé oltre 10 miliardi di dollari di passività.
A far tremare i mercati non è stata solo la dimensione del default, ma la natura dei finanziamenti della società: First Brands si era finanziata attraverso mercati del credito privato e veicoli strutturati come i CLO (Collateralized Loan Obligations), dove prestiti aziendali vengono impacchettati e rivenduti a investitori istituzionali.
Il problema? Molti di quei prestiti erano difficilmente tracciabili e in alcuni casi duplicati o garantiti più volte. Il Dipartimento di Giustizia ha aperto un’indagine preliminare, e diversi fondi globali — da Jefferies a UBS — stanno cercando di capire l’entità delle perdite potenziali. Nonostante i tentativi di rassicurazione di colossi come BlackRock, l’episodio ha riacceso i timori di un contagio nel mercato del private credit degli Stati Uniti, cresciuto a ritmi vertiginosi e con controlli spesso più deboli rispetto al credito bancario tradizionale.
Pochi giorni dopo è esploso il caso Tricolor, un prestatore e rivenditore di auto usate specializzato nel segmento subprime. La società è collassata lasciando un buco milionario nei bilanci di diversi finanziatori — tra cui JPMorgan, che ha registrato 170 milioni di perdite legate all’esposizione verso il gruppo.
Anche qui, la dinamica è simile: Tricolor aveva ottenuto ingenti linee di credito attraverso fondi di private lending, strutturate in modo tale da rendere difficile valutarne la qualità effettiva.
Due episodi distinti, ma accomunati da un filo rosso: società indebitate attraverso canali opachi del private credit, con garanzie dubbie e investitori spesso ignari della reale solidità dei prenditori. In altre parole, una parte crescente dell’economia americana si finanzia in un sistema “ombra”, lontano dai radar regolamentari.
Se i casi First Brands e Tricolor raccontano i rischi del credito privato, la seconda ondata di preoccupazione arriva invece dal sistema bancario tradizionale, in particolare dalle banche regionali — proprio come lo era Silicon Valley Bank.
Nelle ultime settimane Zions Bancorp ha annunciato perdite per circa 50 milioni di dollari dovute a due prestiti commerciali risultati fraudolenti. Il titolo è crollato in Borsa e ha trascinato con sé l’intero comparto. Poco dopo, Western Alliance ha reso nota una controversia legale con un cliente accusato di frode su linee di credito per oltre 100 milioni di dollari.
Non si tratta di casi direttamente legati al private credit, ma di segnali di un medesimo deterioramento della qualità del credito negli Stati Uniti. Le banche regionali americane, infatti, si muovono in aree dove spesso i confini con il mondo del private lending sono labili: condividono clienti, co-finanziano progetti, talvolta cartolarizzano i loro prestiti con gli stessi fondi che operano nei circuiti non bancari. In questo senso, i problemi di Zion e Western Alliance mostrano come lo stress del credito possa propagarsi lungo tutto l’ecosistema finanziario, senza più una linea netta tra ciò che è “bancario” e ciò che non lo è.
Il primo a lanciare un segnale pubblico è stato Jamie Dimon, CEO di JPMorgan Chase, con una frase destinata a restare: “Quando vedi uno scarafaggio, probabilmente ce ne sono altri dietro l’angolo“.
Il riferimento, ovviamente, era ai casi First Brands e Tricolor. Secondo Dimon, questi episodi potrebbero essere solo i primi a emergere da un panorama di credito gonfiato, dove rendimenti elevati e leve crescenti hanno spinto molti operatori a prendersi rischi eccessivi. JPMorgan stessa ha dovuto contabilizzare perdite legate a Tricolor, e il suo CEO ha avvertito che “altre sorprese potrebbero arrivare”. Non a caso, l’indice delle banche regionali americane (KBW) è sceso ai minimi da mesi e diversi gestori stanno riducendo l’esposizione ai titoli più esposti al credito privato.
Oggi il mercato del private credit negli Stati Uniti vale oltre 2.000 miliardi di dollari e continua a crescere: alcune stime prevedono che possa arrivare a 3.500 miliardi entro pochi anni. È diventato il nuovo eldorado degli investitori istituzionali – fondi pensione, assicurazioni, family office- attratti da rendimenti che superano di diversi punti quelli obbligazionari.
Ma la sua popolarità è ormai così grande che il private credit è entrato anche nel mondo retail, grazie a ETF e fondi indicizzati che ne replicano la performance. Un’evoluzione che pone un interrogativo inquietante: cosa succede se una parte di questi prestiti comincia a deteriorarsi? Chi assorbirà le perdite, e quanto velocemente potrebbero diffondersi nel sistema finanziario più ampio?
Mentre tutti guardano all’intelligenza artificiale in cerca della prossima bolla tecnologica, forse stiamo trascurando una situazione più pericolosa, quella silenziosa del credito privato e delle zone grigie della finanza americana.
Perché alla fine, tra data center e algoritmi, il sistema economico americano resta fondato su un elemento antico quanto la banca stessa: la fiducia nel credito. E se quella dovesse incrinarsi, non serviranno supercomputer per evitare che tornino a scricchiolare i muri di Wall Street.
Foto di Markus Winkler






