Rialzo dei tassi: quando l’inflazione non risponde

Giorni fa è uscito un interessante lavoro dell’Economist che mostra come, in alcuni paesi, ad un anno di distanza dall’inizio del rialzo dei tassi di interesse, l’inflazione non dia ancora segni di cedimento.

Novembre sarà un altro mese piuttosto caldo. E non stiamo parlando del preoccupante andamento meteorologico di questo strano autunno 2022, ma della nuova raffica di rialzi dei tassi che le banche centrali adotteranno nelle prossime settimane (ore nel caso della BCE). I mercati finanziari, sotto sotto, continuano a pensare che alla stretta novembrina possa seguire una pausa, visto che la lettura di molti dati macro – sondaggi PMI in testa – sembra far presagire l’avanzata decisa di un periodo di recessione per le principali economie mondiali.

Ma novembre potrà essere anche un mese nel quale si comincerà a vedere qualche primo segnale convincente di quell’attesissimo raffreddamento dell’inflazione? A guardare ai dati di ottobre non sembra possibile lasciarsi andare a sorrisini ottimistici. Giappone, Canada ed Australia (gli ultimi dati arrivati) ci dicono che se qualche movimento in controtendenza si può rintracciare nella parte più volatile dei panieri, i dati core continuano ad indicare un aumento dell’inflazione, e prezzi in salita si segnalano anche nel più ampio e vischioso settore dei servizi.

Molti analisti hanno criticato l’atteggiamento attendista di alcune banche centrali, sostenendo che ogni minuto passato a ragionare sulla temporaneità dell’inflazione ha, nei fatti, reso il fenomeno più complicato da combattere ed allungato i tempi per uscirne. Ma è davvero così? Parecchi dubbi sulla questione nascono leggendo un interessante lavoro pubblicato in questi giorni dal settimanale economico inglese The Economist.

Se grandi banche centrali come la FED o la BCE hanno ritardato ad agire, non si può dire la stessa cosa di paesi come il Cile, il Brasile, l’Ungheria ed altri – otto in tutto – che l’Economist raggruppa per formare un fantomatico paese di Hikelandia (da hike che in inglese significa rialzare). Su quest’isola immaginaria, in un anno, il rialzo medio dei tassi è stato di 6 punti percentuali. L’effetto è stato uno scontato rallentamento dell’economia. Ma a questo si è accompagnata anche una riduzione dell’inflazione? Stando ai dati elaborati dall’Economist pare proprio di no. L’inflazione media del gruppo di paesi considerati, a settembre, era del 9.5%, in rialzo di oltre tre punti rispetto a marzo di quest’anno.

Le ipotesi di questo comportamento anomalo possono essere diverse (estrema lentezza di trasmissione della politica monetaria restrittiva nel sistema; poco coraggio da parte delle autorità monetarie e fiscali; elementi esogeni come la furiosa salita del dollaro) ma tutte sembrano convergere su un punto: che questa ondata di inflazione ha, come molte cose di questo inizio millennio, elementi di novità rispetto a episodi simili del passato. Questo significa che niente è scontato e tutto è possibile: da uno scenario con livelli di inflazione più alti in maniera strutturale, a quello nel quale vi sarà la necessità di un rialzo dei tassi molto più corposo di quanto si possa ora immaginare, fino all’utilizzo – come suggerisce l’Economist – di strumenti creativi per porre un freno al carovita.

I mercati finanziari hanno intuito la presenza di questa variante dell’inflazione o no? Se la risposta fosse negativa, l’ottimismo che ribolle sotto la superficie e che si percepisce in questi giorni potrebbe svanire di fronte a dati che non scendono, con le conseguenze che possiamo ben immaginare.

Foto di Pablo Elices

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