Reinventare la supply chain

Le imprese stanno rispondendo alla crisi globale della supply chain rimettendo mano ai livelli di scorte e diversificando i fornitori, mentre perde forza l’idea di riportare in patria le produzioni.

Da oltre due anni, oramai, le imprese si trovano giornalmente di fronte ad un qualche problema legato alle forniture. In principio furono i dazi statunitensi imposti alle merci cinesi, poi è arrivata la pandemia con il suo carico di lockdown. Infine la tragica guerra in Ucraina ha ulteriormente aggravato una situazione già di per sé cupa. Per interi comparti del manifatturiero e del retail reinventare la propria supply chain è diventata una missione, un imperativo per sopravvivere. Ma come fare?

Goldman Sachs ha provato a sondare il terreno negli USA, individuando tre strategie: aumentare le scorte, riportare le produzioni in casa, diversificare il proprio network di fornitori. Secondo lo studio, come racconta recentemente Olivia Rockeman di Bloomberg, le imprese statunitensi sembrano aver puntato soprattutto sul magazzino, con l’intenzione di alzare il rapporto tra scorte e vendite del 5% rispetto a quello pre-pandemia.

Supply chain, il rapporto tra scorte medie e vendite negli USA
Supply chain, il rapporto tra scorte medie e vendite negli USA – Fonte: https://fred.stlouisfed.org/

Lo stesso Logistics Managers’ Index segnala che i livelli di scorte di magazzino sono cresciuti, toccando un nuovo record storico nei mesi successivi al periodo natalizio anzichè ridiscendere sui livelli “normali”. Il ricorso all’incremento delle scorte ha ovviamente ripercussioni sul fronte dei prezzi, perchè aumenta la domanda e mette ancora più pressione ad un offerta che già fatica a starle dietro.

Delle altre due strade percorribili, vale a dire riportare in patria produzioni all’estero e diversificare i fornitori, la prima sembra decisamente la meno praticata e, probabilmente, la meno praticabile anche in futuro. Sempre secondo i dati raccolti negli USA dagli economisti di Goldman Sachs, nel corso degli ultimi mesi il valore dei beni importati ha continuato di gran lunga a superare quello dei beni prodotti sul suolo statunitense, segnale evidente che non vi è stato nemmeno il tentativo, almeno per ora, di intraprendere la via del cosiddetto, costosissimo, “reshoring” delle forniture.

Discorso diverso, invece, per quel che riguarda la diversificazione delle forniture. Le aziende che nel 2020 hanno sperimentato pesanti conseguenze sui profitti per il fatto di dipendere da fornitori dislocati in paesi con protocolli anticovid molto stringenti, nell’anno successivo hanno iniziato a diversificare il proprio portafoglio fornitori. Pimco segnala una forte migrazione di produzioni dalla Cina verso paesi come l’India, il Vietnam e la Malesia, mentre un colosso come Apple (secondo i dati del Paulson Institute) ha ridotto il numero di stabilimenti in Cina dal 47.9% al 42.4% nel biennio 19-21.

Il caso del Messico è particolarmente eclatante. Nel mese di febbraio le esportazioni di prodotti non petroliferi è salita del 27% su base annua, con aziende come Mattel (per la produzione) e Tesla (per la fornitura di batterie) che guardano al Messico settentrionale con sguardo più che interessato. Sul fronte dei prezzi il fenomeno della diversificazione del portafoglio fornitori non sembra poter avere impatti significativi, specie se la soluzione (è il caso del Messico per gli USA) è dietro l’angolo di casa. Il rovescio della medaglia è che i tempi affinchè questa enorme riallocazione delle produzioni si completi sono necessariamente lunghi.

In definitiva le imprese, almeno nel caso statunitense, sembrano aver individuato una via di fuga dai colli di bottiglia della supply chain globale nell’aumento delle scorte e nella diversificazione dei fornitori, scartando al momento le ipotesi di reshoring delle produzioni. Questo significa, anche, che l’impatto sull’inflazione nel medio termine dovrebbe mantenersi su livelli contenuti.

Foto di delphinmedia

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