Mentre la FED sembra prossima ad un forte intervento sui tassi nel mese di marzo, la BCE appare bloccata nel dilemma: sopportare l’inflazione o mettere a rischio la ripresa?
L’inflazione è la grande protagonista del momento in chiave macroeconomica. Nei mesi scorsi si è molto discusso sulla sua natura e sulla sua capacità di rimanere a lungo tra di noi. In effetti, il tema della transitorietà del fenomeno sembra del tutto scomparso dai radar, ma questo non significa che non ci sia ancora una possibilità che la fiammata dei prezzi possa terminare in tempi relativamente veloci. Sotto sotto è quello che ancora continua a pensare la BCE e, viste le ultime decisioni, anche la banca centrale australiana pare volersi muovere con molta circospezione prima di prendere decisioni importanti.
Il rischio che cova sotto questo tipo di ragionamento “prudente” sta nella capacità dell’inflazione di breve termine di modificare le aspettative di inflazione dei consumatori. E sappiamo che tradizionalmente, anche se c’è chi dissente, le aspettative di inflazione sono esse stesse in grado di muovere i prezzi attuali verso l’alto, generando ulteriore inflazione. Insomma, anche ammettendo che questa sia inflazione di breve termine, non curarla può portare alla sua “cronicizzazione”, ovvero trasformarla da fenomeno transitorio a questione prolungata nel tempo.
Un buon punto di partenza per cercare di affrontare il problema è senza dubbio quello di individuare le cause del rialzo dei prezzi. In questo senso risulta molto interessante il risultato del sondaggio di gennaio condotto dal CfM sul caso inglese. In Gran Bretagna l’inflazione viaggia oltre il 5% e secondo la BoE – che ha recentemente alzato di 25 punti base i tassi di riferimento – il picco dovrebbe essere raggiunto entro metà primavera. Nel sondaggio è stato chiesto ad un panel di esperti di indicare quali secondo loro siano le cause di questa fiammata dei prezzi e quanto tempo potrebbe durare questa fase di inflazione “allegra”.
Per il 77% degli intervistati la causa principale del rialzo dei prezzi va cercata nelle difficoltà della supply chain globale, fenomeno esasperato dalle parti di Londra a causa della Brexit. Meno del 10% del panel ritiene che il fenomeno possa essere collegato alle politiche fiscali e monetarie espansive; e ancor meno plausibile è tirare in ballo il discorso del base effect (valeva, forse, fino a inizio 2021).
Gli esperti interpellati dal CfM sembrano avere le idee chiare anche sulla durata del fenomeno. Per oltre il 60% degli intervistati siamo ancora di fronte ad un fenomeno temporaneo. Alcuni motivano la risposta considerando le aspettative di inflazione ancora poco intaccate dai rincari, altri che l’impatto e la magnitudine di questi rialzi avrà effetti rapidi sulla domanda, riducendola e di conseguenza calmando i prezzi.
Molto interessante il commento di Francesca Monti (Université catholique de Louvain) che in sostanza non ritiene il fenomeno inflazionistico attuale permanente. Tuttavia, continua Monti, non si tratta di un’inflazione che è in grado di ritirarsi da sola, senza un intervento delle autorità monetarie.
E torniamo al punto di partenza. Probabilmente il grande dilemma BCE sta proprio qui, nel trovare un equilibrio tra due esigenze: evitare che l’inflazione da fenomeno ritenuto ancora temporaneo diventi cronico, ed allo stesso tempo scongiurare gli effetti negativi sulla ripresa di una politica monetaria restrittiva “accelerata”.
Foto di hardys