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Great Resignation, l’inattesa reazione sul mercato del lavoro

Anthony Klotz della Texas A&M University l’ha definita una Great Resignation, giocando sull’assonanza con la Grande Recessione di storica memoria. Stiamo parlando di quel fenomeno, non solo statunitense, per il quale un numero elevato di lavoratori decide di lasciare volontariamente il proprio impiego.

Ultimo in ordine di tempo, persino Elon Musk ha twittato l’intenzione di lasciare la sua attuale scrivania per dedicarsi ad altro. Ora, non è dato a sapersi quanto ci sia di vero nell’uscita di Musk, da sempre incline a “trollare”, come si dice oggi, chi lo legge. Resta il fatto che negli USA, ma non solo, continua a crescere il numero di persone che decidono di lasciare volontariamente il proprio posto di lavoro. Anthony Klotz, della Texas A&M University, l’ha definito The Great Resignation.

Ed in effetti, guardando i numeri, la dimensione del fenomeno appare notevole. Nel mese di ottobre, stando al report del Labour Department, 4,2 milioni di americani hanno deciso di licenziarsi. Da aprile scorso il totale dei licenziamenti volontari ha superato la soglia dei 24 milioni.

Uno studio di Ian Cook, pubblicato sull’Harvard Business Review, ha provato ad elaborare il profilo del lavoratore che decide di licenziarsi. Si tratta mediamente di persone tra i 30 e i 45 anni, con una discreta esperienza lavorativa alle spalle e per la maggior parte impiegati nei settori tecnologico e farmaceutico.

Il licenziamento volontario all’indomani di grandi crisi non è un comportamento del tutto nuovo. Come ricorda l’Economist in un articolo di qualche settimana fa, anche all’indomani della pandemia di influenza spagnola, negli USA, si registrò un forte aumento dei licenziamenti volontari. In quel caso la spinta all’abbandono del posto di lavoro veniva da un clima di forte protesta sociale, con i lavoratori costretti a turni massacranti per i quali ricevevano in cambio salari rapidamente prosciugati dall’inflazione crescente.

Oggi il fenomeno sembra molto più variegato ed è possibile individuare almeno due forti spinte al licenziamento. La prima, forse quella che maggiormente si adatta a spiegare i numeri statunitensi, è riassumibile in un unico dato: 11 milioni. Di cosa stiamo parlando? Delle offerte di lavoro che risultavano aperte negli USA nel mese di ottobre. Dai dati del dipartimento del lavoro sappiamo che sempre nel mese di ottobre sono stati registrati 6,5 milioni di contratti di assunzione. Questo significa che nel solo mese di ottobre sono rimaste scoperte quasi 4 milioni di posizioni lavorative. In altre parole l’offerta supera abbondantemente la domanda, e questo genera in chi ha attualmente un’occupazione la sensazione di poter trovare un nuovo lavoro in tempi brevi e probabilmente a condizioni economiche più vantaggiose. Riprendendo i dati elaborati da Ian Cook, si può ipotizzare una forte pressione sui lavoratori con esperienza, quella classe di età e livello lavorativo che sembra più incline al licenziamento. Del resto le imprese lamentano difficoltà soprattutto nel trovare profili adatti, ossia in possesso di abilità specifiche, di esperienza, da inserire nel loro organigramma.

La seconda spinta alla Great Resignation ha molto a che fare con la pandemia e con un processo, complesso, di ripensamento della propria vita lavorativa e del peso che questa ha, o dovrebbe avere, sull’intera esistenza dell’individuo. I dati di un sondaggio World Values Survey, riportato dall’agenzia Bloomberg, ci dicono che la percentuale di 30enni statunitensi che considera il lavoro “molto importante” è passata dal 59% del 2000 al 43% dell’anno scorso; in Cina dal 64% al 40%, in Germania dal 54% del 2005 al 44% del 2020. Proprio dalla Cina, in aggiunta, è partito il cosiddetto “lie flat” movement, una protesta contro l’oramai insostenibile modello di lavoro 996 (orario di lavoro dall 9 alle 21 per sei giorni a settimana) che coinvolge soprattutto i lavoratori del settore tecnologico.

La pandemia ha da prima concesso a molti lavoratori di sperimentare modalità di lavoro caratterizzate da una spiccata autonomia organizzativa e gestione del tempo. In un secondo tempo, la rombante ripresa post lockdown ha sovraccaricato il sistema produttivo, aumentando la pressione sui lavoratori. L’aver sperimentato queste due modalità opposte di impiego e l’esperienza della pandemia, una sorta di riscoperta della fragilità e della limitatezza della propria esistenza, ha sicuramente messo molte persone di fronte a interrogativi e dubbi sulla gestione del proprio tempo.

C’è chi ritiene che i numeri che stiamo vedendo facciano semplicemente parte di un assestamento del mercato del lavoro, scosso da una crisi di portata eccezionale e quindi gravida di conseguenze eccezionali. Le imprese, dal canto loro, si stanno comunque attrezzando mettendo a punto nuovi strumenti per trattenere i lavoratori.

Foto di lukasbieri

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