Automazione e lavoro, tra produttività e redistribuzione

Un recente studio suggerisce che l’automazione porta indiscutibili vantaggi sotto il punto di vista della produttività, ma allo stesso tempo, dal lato del lavoro, mette a rischio le mansioni a bassa specializzazione.

Il rapporto tra robot e uomini è un tema che da decenni affascina ed inquieta allo stesso tempo. Con l’accelerare dell’innovazione tecnologica quello che era soltanto trama di libri e film è piano piano diventato prima realistico e poi, in alcuni ambiti, realtà. E la pandemia di covid-19, con le le imprese nella necessità di sostituire la componente umana per dare continuità ai processi produttivi nel lungo periodo di lockdown, ha aumentato la fame di automazione.

Di fronte all’avanzata dell’automazione è naturale domandarsi quale possa essere il futuro del mercato del lavoro. Come inciderà la presenza massiccia di processi automatizzati sui tassi di occupazione e sui salari? Si tratta di domande che coinvolgono l’economia ma anche, forse soprattutto, la politica. Una società nella quale l’occupazione diminuisce, l’età media si alza e la tecnologia prende il sopravvento, rappresenta uno scenario completamente nuovo ed inesplorato. Una vera e propria sfida per il welfare e per l’istruzione.

A darci qualche spunto in più ci hanno pensato Seth G. Benzell e Victor Yifan Ye. In un loro recentissimo paper i due ricercatori hanno presentato un modello di lungo termine per valutare gli effetti sulla produttività e sull’occupazione di un incremento dell’automazione nei processi produttivi.

Lo studio prende in considerazione le economie di 150 paesi, valutando il comportamento delle imprese di fronte all’arrivo di nuove tecnologie. Il primo risultato della simulazione è che l’automazione ha la capacità di far salire la produttività e la produzione. Lo studio mostra, ad esempio, che agli attuali tassi di innovazione il PIL degli USA salirà del 5% in più entro il 2050. Gli effetti sono ancora più evidenti se si prendono in considerazione economie dotate di molti capitali e di una popolazione lavorativa in netta diminuzione, come l’Europa ed il Giappone.

Ma se questo è l’aspetto più che positivo dell’automazione, rimane l’altro grande nodo: cosa succede sul fronte del lavoro e quindi dei redditi? Il modello mostra che l’adozione delle nuove tecnologie è molto più rapida nei paesi in cui la paga dei lavori a bassa specializzazione è più alta. La presenza di lavoratori “low-skill” con salari bassi rappresenta un forte disincentivo all’innovazione, con effetti negativi sulla crescita nel lungo termine.

L’adozione sempre più massiccia dei processi automatizzati è destinata a colpire in particolar modo le fasce di popolazione lavorativa non dotate di particolari specializzazioni. E questo, se non gestito, rischia di allargare le disuguaglianze all’interno della società. La via maestra sembra essere quella di utilizzare una parte della maggiore ricchezza prodotta dall’automazione per il finanziamento di forme di redistribuzione della ricchezza, come il reddito di base, investendo parallelamente sull’istruzione e la formazione della popolazione lavorativa. La simulazione condotta sugli USA da Benzell e Yifan Ye, ad esempio, mostra come l’adozione di un reddito di base possa costare al 2050 2,5 punti di PIL, la metà di quanto guadagnato dall’adozione di nuove tecnologie produttive.

Foto di Michal Jarmoluk

Gli ultimi articoli di Ekonomia.it direttamente nella tua casella mail. Iscriviti qui sotto.
I dati trasmessi attraverso questo modulo sono trattati secondo la nostra privacy policy, in linea con la normativa vigente. Per nessun motivo verranno ceduti a terze parti o utilizzati per l'invio di messaggi di natura commerciale.