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Disoccupazione classica e disoccupazione keynesiana

Disoccupazione classica e keynesiana sono concetti legati a due differenti modi di vedere le dinamiche della domanda ed offerta di beni e servizi.

Colpita alle fondamenta soltanto dall’opera di John Maynard Keynes, la legge di Say spadroneggiò nel pensiero economico per oltre un secolo. Secondo l’economista francese, vissuto tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800, la produzione di merci era in grado di generare una domanda capace di acquistare l’intera offerta. In altre parole, la legge di Say sosteneva che tutto quello che veniva prodotto, veniva acquistato. Di conseguenza, nell’impianto delineato da Say, non c’era spazio né per la sovrapproduzione, né per la disoccupazione.

L’evidenza empirica, che dimostrava tutt’altro, veniva giustificata con squilibri temporanei di breve periodo che generavano una mancanza di potere d’acquisto. Il mancato raggiungimento della piena occupazione veniva spesso spiegato con motivazioni che potremmo definire sociologico-sindacali. Nell’ineluttabile visione di Say i salari si sarebbero dovuti adattare passo passo alla produzione, quanto si incassava dalla vendita di un prodotto avrebbe dovuto sempre remunerare tutte le componenti che avevano contribuito alla sua realizzazione (operai, capitalisti e proprietari terrieri). La disoccupazione veniva così spiegata collegandola a fattori demografici (Malthus e la crescita geometrica della popolazione, un fenomeno che riducendo il livello dei salari rendeva ad un certo punto impossibile l’acquisto di tutti i beni prodotti) oppure all’intervento delle associazioni sindacali che, imponendo salari minimi, impedivano al sistema economico di raggiungere la piena occupazione.

La grande depressione del 1929 diede il colpo mortale alla legge di Say. Keynes rivoltò la questione sostenendo che poteva esserci una carenza di domanda, che poteva svilupparsi una preferenza per la liquidità a scapito del consumo e che i prezzi delle merci, per diverse ragioni, potevano non adattarsi alla nuova situazione. Questo generava sovrapproduzione e, di conseguenza, disoccupazione. Il mancato raggiungimento della piena occupazione, in uno scenario di concorrenza imperfetta, era legato a rigidità sia dei prezzi che dei salari.

Per il modello classico lasciar ridurre i salari avrebbe riportato l’economia al suo equilibrio di piena occupazione. Per il modello keynesiano la riduzione dei salari non avrebbe fatto altro che ridurre ulteriormente la capacità di spesa, generando in definitiva maggiore disoccupazione.

Disoccupazione classica e disoccupazione keynesiana rappresentano anche due differenti modalità di intendere il ruolo dello stato. Per la corrente classica, che si rifaceva al pensiero di Adam Smith, lo stato doveva lasciare che il mercato trovasse da solo i propri equilibri. Nella visione keynesiana, invece, la spesa pubblica, in momenti di di crisi, diventa uno strumento necessario per “curare” la carenza di domanda.

Foto di Dariusz Sankowski

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