Tassi di interesse e stock di debito. Quel difficile fine tuning

Un sottile e complicato filo rosso collega due report finanziari usciti nei giorni scorsi. Da un lato la FED e dall’altro l’Institute of International Finance, raccontano due facce della stessa medaglia: tassi di interesse e stock di debito. Il difficile fine tuning dei due fenomeni è la grande sfida dei prossimi mesi.

Venerdì scorso la Federal Reserve ha rilasciato l’aggiornamento del suo rapporto biennale sulla situazione finanziaria del paese. Cosa dice questo rapporto? Sintetizzando al massimo possiamo dire che lancia un allarme. Una politica monetaria espansiva per troppo tempo può mettere a rischio la stabilità del sistema finanziario.

I bassi tassi di interesse, nel lungo periodo, hanno effetti negativi sulla profittabilità di banche, compagnie assicurative ed altri intermediari finanziari. Una mancanza di profitto che può spingere i board degli istituti finanziari ad assumere comportamenti più rischiosi alla ricerca di rendimenti. Questo può rappresentare una minaccia per la stabilità finanziaria del sistema, rendendolo più debole di fronte ad uno shock.

Il report sottolinea come, a dispetto dei bassi tassi di interesse, vi siano comportamenti anomali della liquidità. Il caso REPO lo sta a dimostrare ma anomalie sono riscontrabili anche nel mercato dei derivati sulle azioni. Si assiste, sottolinea il report, ad una mancanza di liquidità nei momenti in cui questa è più necessaria. Un fenomeno accentuatosi a partire dal 2018 e motivato, sostengono i dealers intervistati dalla FED, dal comportamento molto prudente degli intermediari, i quali sono meno inclini ad attivarsi sul mercato quando la volatilità sale.

Tassi bassi “producono” liquidità che poi, però, non viene fatta circolare nei momenti in cui servirebbe. Un cortocircuito che a settembre ha costretto la FED intervenire direttamente pompando nel sistema dollari freschi.

L’altra faccia della medaglia è raccontata dall’Istituto Internazionale della Finanza (IIF) e riguarda lo stock di debito globale. Nella prima metà del 2019 questa gigantesca massa di debiti ha raggiunto la cifra di 250 trilioni di dollari, ritoccando il precedente record. Il 60% del totale è detenuto da soggetti statunitensi e cinesi.

Per rendersi conto di cosa significhino 150 trilioni di dollari, basterà dire che rappresentano quasi tre volte e mezza la ricchezza mondiale lorda prodotta (320% del PIL mondiale). Dati che dovranno essere rivisti ancora al rialzo, visto che, sottolinea l’IIF, il tasso di crescita del debito è superiore al tasso di crescita dell’economia.

Nel 2019 sono stati soprattutto i paesi emergenti ad accelerare sul ricorso ai capitali di terzi (71,4 trilioni di dollari, 220% del PIL); nella maggior parte dei casi gli emittenti sono statali o emanazioni statali. Spesso il debito dei paesi emergenti è denominato in valute forti (dollaro in primis) e questo genera due fenomeni: la forte dipendenza del debito di molti paesi emergenti all’andamento dell’economia globale; la sostenuta domanda di dollari che non permette alla valuta americana di scendere nonostante l’inversione di rotta della FED sui tassi.

Il rapporto dell’IIF si sofferma anche sugli effetti che potrebbe avere il climate change sulle dinamiche debitorie. Paesi altamente indebitati potrebbero andare in difficoltà nel reperire ulteriori fondi necessari ad affrontare crisi climatiche sempre più pesanti.

Tassi di interesse e stock di debito. I primi non possono rimanere troppo bassi a lungo, il secondo cresce a ritmi più alti rispetto a quanto cresce l’economia e, nel caso dovessero tornare ad aumentare i tassi di interesse, potrebbe stritolare la politica fiscale di molti paesi.

Trovare il fine tuning, il giusto bilanciamento, tra i due fenomeni sarà una delle sfide più importanti della politica monetaria nei prossimi mesi.

Foto di Thomas Breher

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