Pil Italia. Storia di un rallentamento annunciato

Ieri l’ISTAT ha diffuso i nuovi dati sull’andamento dell’economia del nostro paese. Il PIL dell’Italia rivede il segno meno dopo 14 trimestri di crescita. Il dato, in pasto alla politica, diventa fonte di polemica e scatta, inesorabile, il vicendevole scaricabarile.

I numeri li conoscete già, nel 3° trimestre del 2018 il prodotto interno lordo è calato, rispetto al trimestre precedente, dello 0,1%. Questo significa che la crescita acquisita per l’anno in corso scende di un decimale, sotto all’1%, rendendo più complicati i sottili equilibri dei conti pubblici ed ancor più ardite le previsioni governative sul 2019.

Si tratta di un dato trimestrale, si tratta del trimestre meno lavorativo dell’anno e non  rappresenta un unicum nel contesto internazionale. Nello stesso periodo hanno mostrato segnali di rallentamento anche la Germania e persino la locomotiva statunitense, pur rimanendo in area positiva grazie alla robusta politica fiscale dell’amministrazione Trump, denuncia qualche primo segnale di raffreddamento.

Insomma, il rallentamento era ampiamente nell’aria e questo, dati i bassi tassi di crescita del nostro paese, ha generato un dato negativo. Non dovrebbe essere tanto la fluttuazione della ricchezza interna prodotta a preoccupare, quanto il fatto che, da oramai due decenni, questo paese non riesce a tenere il ritmo dei partner europei, vive fasi recessive più lunghe e non sembra possedere la fibra adatta per accelerare quando tutte le circostanze lo consentirebbero.

L’anello debole della catena rimangono i consumi interni a cui, specie in questo famigerato 3° trimestre, si è aggiunto un calo sensibile negli investimenti. Un paese che consuma poco e che confida poco nel futuro.  La politica, estremamente capace di intercettare i malumori che dal paese si sollevano da mesi, sembra però non in grado di dare risposte credibili, pervicacemente impegnata in una guerra di trincea dove l’obiettivo principale è rovesciare le colpe sull’avversario, tenendo d’occhio i movimenti della lancetta del consenso.

Il buon senso, prima ancora delle analisi macroeconomiche, ci farebbe senza alcun dubbio ammettere che la magra situazione del Pil dell’Italia non può essere solo colpa di un governo; è sarebbe altrettanto semplice sostenere che fare previsioni smentite dalla totalità delle istituzioni internazionali, non è la mossa migliore per instaurare un clima di fiducia tra gli investitori (che alla fine sono i soggetti che prestano il denaro per finanziare la spesa pubblica). Ma invece di deporre le armi e cercare di capire quale malattia si sia impossessata del corpo economico del paese, si preferisce mantenere la posizione, magari, sotto sotto, tifando per un fallimento ancora più evidente, foriero di future riprese elettorali.

Si può continuare a dire che nel paese c’è troppa burocrazia, che la corruzione ed il malaffare si mangiano la ricchezza del paese, che mancano infrastrutture, che scuola e mondo del lavoro non dialogano abbastanza. E poi le tasse, e l’austerity e via discorrendo. Ma se non si risolve il problema principale, che è un problema politico, di come vogliamo sia il paese nei prossimi 30 anni, staremo ogni trimestre qui a fare la cronaca di un nuovo rallentamento annunciato o ad azzannarci su modesti decimali di crescita da far valere di fronte all’elettorato.

 

 

 

 

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