Trump, i dazi e David Ricardo

Alla fine è arrivata anche la firma. Trump, circondato da operai del settore metallurgico, ha messo la parola fine alle discussioni sui dazi e dato il via ad una nuova era protezionistica a stelle e strisce.

I dazi introdotti dall’amministrazione Trump riguardano solo le importazioni di acciaio e di alluminio. La motivazione addotta per la loro introduzione è piuttosto singolare. Rifacendosi ad una legge del 1962, Trump ha giustificato l’imposizione del balzello sulle importazioni in quanto l’acciaio e l’alluminio sono utilizzati nell’industria bellica ed importare questa materia prima significa mettere a repentaglio la capacità di difesa dell’esercito americano in caso di conflitto.

Poco importa se i maggiori fornitori di acciaio ed alluminio facciano parte della NATO e siano quindi, in linea di principio, alleati degli USA.  Trump lascia una porta aperta agli “amici” degli Stati Uniti ma a condizioni a dir poco capestro. Se Messico e Canada sono esentati ma a patto che si dimostrino favorevoli ad una modifica del trattato di libero scambio NAFTA, per gli altri paesi NATO l’unico modo di dimostrare amicizia è quello di finanziare la spesa militare nazionale rispettando il limite suggerito dall’alleanza atlantica (il 2% del PIL).

Il risultato di questo risiko è che paesi come Italia e Germania, i quali spendono meno del 2% in armamenti, si vedranno applicare un dazio del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio. I primi conteggi parlano di una riduzione delle esportazione di 2,6 miliardi di dollari per l’Unione Europea (pesantemente colpita anche l’Italia). La Cina, da tutti considerata uno dei principali elementi di squilibrio del commercio internazionale, se la caverà con poco meno di 700 milioni di dollari di mancate esportazioni.

La questione dei dazi non è semplice come sembrerebbe e per capirne qualcosa occorre andare un po’ indietro con i secoli e tornare alle teorie di un signore inglese di fine 700, tale David Ricardo. Il suo modello, applicato al commercio internazionale, pone una questione basilare sul tema del libero scambio: gli scambi tra i paesi partner devono avvenire in equilibrio affinchè entrambi traggano vantaggio dall’apertura delle frontiere.

Si tratta di quel principio di reciprocità che, a volte, può essere garantito solo applicando i dazi.  L’equilibrio tra i paesi si raggiunge attraverso il pareggiamento del prezzo dei fattori produttivi, questo significa che ogni paese tenderà a specializzarsi nella produzione di beni con un prezzo dei fattori produttivi più basso rispetto ad altri paesi.

Se quanto visto sino ad ora non si realizza la situazione tenderà ad un disequilibrio con un paese in attivo nella bilancia dei pagamenti ed uno che rimane in passivo. Alla lunga questo disequilibrio costringe all’indebitamento il paese con il passivo nella bilancia dei pagamenti e può portarlo a difendersi imponendo dazi per riportare la situazione in equilibrio. Ovviamente tutto ciò sta in piedi se e solo se il paese a cui i dazi sono imposti non ponga in atto ritorsioni commerciali, nel qual caso la situazione tenderà a degenerare.

I dazi, quindi, non sono il male assoluto ma talvolta possono essere lo strumento migliore per garantire che il commercio internazionale non sfoci in pericolosi disequilibri tra i vari paesi.  Perchè questo possa avvenire occorre che i paesi a cui i dazi sono applicati non mettano in atto ritorsioni commerciali, serve quindi un vero e proprio accordo.

La decisione di Trump, unilaterale e tendente a colpire aree commerciali già ampiamente regolamentate, non pare rispettare nulla di quanto detto sino ad ora ma ha più il sapore della promessa elettorale buona per non naufragare nelle elezioni di medio termine.

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