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Domanda, offerta e redistribuzione. Una piccola storia.

C’era una volta una legge, la chiamavano “della domanda e dell’offerta” e regolava, più o meno bene, gli scambi di prodotti e servizi. Da un lato c’era chi aveva qualcosa da offrire e dall’altro chi era disposto ad acquistare. L’incontro tra le due posizioni generava un prezzo ed una quantità di equilibrio.
La moneta usciva dalle tasche dell’acquirente ed entrava in quelle del venditore, quest’ultimo tornava a redistribuirla sotto forma di successivi acquisti e di salari pagati ai suoi collaboratori.

Nel 1914, Henry Ford alzò a 5 dollari/giorno, raddoppiandolo, il salario della gran parte dei suoi operai qualificati. Anche se le motivazioni che spinsero Ford a questa scelta rimangono molte, si narra che usasse giustificarla con un ragionamento di questo genere: se non diamo agli operai i soldi per comprare le auto, per chi le produciamo?

I tassi di tournover diminuirono, assenze e licenziamenti crollarono ed i profitti Ford degli anni seguenti al 1914 continuarono ad aumentare.

Insomma, la redistribuzione, intesa come il continuare a far girare i soldi nel sistema economico era la benzina che permetteva allo stesso di reggersi in piedi e di svilupparsi.

Ma ad un certo punto qualcosa si è rotto. I consumi nazionali hanno raggiunto livelli di saturazione, si produceva troppo e la domanda calava. La nostra legge dava ancora il suo responso: prezzi e profitti iniziavano a calare. Nelle stanze dei bottoni iniziò allora a serpeggiare una domanda: perché non produrre dove i salari sono più bassi e vendere dove il reddito disponibile è più alto?

Così si è dato il via alla delocalizzazione, con una conseguente ripresa dei profitti e la creazione di squilibri di base. La delocalizzazione porta via lavoro e reddito a chi dovrebbe acquistare, le holding prendono casa nei paradisi fiscali, i lavoratori vengono sottopagati.

Lo storico Ignazio Masulli nel suo Chi ha cambiato il mondo? (Laterza) ha fatto due calcoli. Negli anni 80 la Francia investiva all’estero una somma pari al 3,6% del PIL, nel 2012 questa percentuale era diventata il 57%. Nello stesso periodo la Germania è passata da 4% al 45%, il Regno Unito dal 14% al 62%, l’Italia dall’1,6% al 28%.

Sempre Masulli calcola che, in termini di posti di lavoro “emigrati” la Francia ha “bruciato” nel processo di delocalizzazione 5,9 milioni di posti di lavoro, la Germania 7,3 milioni, l’Italia 2,6 milioni.

Le economie “mature” perdono posti di lavoro ed il reddito disponibile tende a diminuire, la redistribuzione salta.

Ma il sistema genera profitti e urge trovare un correttivo che consenta di proseguire su questa strada perversa. La soluzione si chiama credito. Se i nostri acquirenti non hanno i soldi per comprare, prestiamoglieli. Con il credito il meccanismo torna a girare.

Oliati a puntino tutti gli ingranaggi rispondono: la produzione procede dove i salari sono più bassi e le regolamentazioni meno rigide, i consumi sono stimolati là dove la leva del credito aumenta il potere d’acquisto di intere classi sociali.

Niente redistribuzione, i margini crescono ed i soldi spariscono aumentando gli squilibri. Il resto è storia recente.

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