Quantitative Easing in Eurozona? Si, no, forse

Nella riunione del 22 gennaio il board della BCE verrà chiamato a decidere sulla possibilità di attivare un’energica operazione di acquisto di titoli di stato (quantitative easing). Una nuova ondata di liquidità per rimettere in pista i prezzi e ridare ottimismo all’economia dell’eurozona.

Nelle intenzioni di Mario Draghi il Quantitave Easing doveva essere solo l’arma finale anzi il “bazooka” da agitare ogni qual volta i mercati si fossero dimostrati scettici sulla ripresa europea e sulla sostenibilità dei debiti sovrani. Ma le cose non sono andate esattamente come ci si aspettava. La ripresa si è dimostrata molto più debole del previsto e sono intervenuti elementi esterni a complicare la scena: le tensioni con la Russia con le conseguenti sanzioni e controsanzion ed  il crash del prezzo del petrolio. La componente energetica ha un peso rilevante nel paniere dei prezzi ed il calo delle quotazioni del greggio ha accelerato il movimento al ribasso. Risultato: l’eurozona è tecnicamente in deflazione (-0,2% in dicembre con picchi considerevoli in Spagna e Grecia).

Non bisogna dimenticare poi la difficoltà (chiamiamola così) a mettere in atto una politica fiscale espansiva definita da parte dell’Unione Europea ed i ritardi sulle riforme istituzionali di alcuni paesi (Italia e Francia).

Il controllo della dinamica dei prezzi è il “core business” della banca centrale europea e per questo motivo difficilmente potrà rimanere ferma. Con i tassi praticamente a zero al buon Mario non restano molte cartucce da sparare, anzi ne rimane solo una: l’inondazione di liquidità.

Ma siamo sicuri che il QE funzioni? Una volta che si manda liquidità nel sistema questa è “libera di circolare” e di prendere le strade che preferisce. Il QE statunitense ha visto fluire liquidità verso paesi emergenti (creando anche qualche grattacapo) e comodities, il QE giapponese ha visto flussi di moneta dirigersi verso Europa e USA. Sarà diverso per l’eurozona?

Alcuni analisti mettono in guarda sul fatto che gli investitori, travolti da tanta moneta, potrebbero dubitare sull’utilità di mantenerla sul suolo europeo (poco remunerativo) e quindi potrebbero orientare i loro investimenti su zone più interessanti e/o sicure (Stati Uniti e Regno Unito ad esempio). Anche all’interno della stessa eurozona le cose cambiano a seconda della latitudine: una Polonia risulta molto più appetibile, in termini di rendimenti, di un’Italia (anche se Jobs Act munita) o di una Francia.

Il rischio principale quindi è che questo fiume di liquidità vada a bagnare lidi extraeuropei e che le gocce rimanenti non si propaghino uniformemente. Inoltre se alla politica monetaria, che tiene a bada i tassi di interesse, non si affianca una politica di investimenti e di riduzione fiscale capace di svegliare gli assopiti consumatori, gli effetti di questa operazione potrebbero risultare ancora più flebili. A ben pensarci un rischio pesante che di sicuro dalle parti di Francoforte non sarà sottovalutato.

Per questo motivo l’impressione è che il board possa prendere ancora un altro po’ di tempo, nella speranza che questa tensione emotiva porti ancora in dote un deprezzamento dell’euro, che la bolletta energetica più leggera faccia il suo dovere e che le esportazioni riportino un po’ di fiducia e qualche decimale di PIl.

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